Cinquant'anni e cinque splendide figure di Papi: è questo l'argomento della mia conversazione che affronterò con taglio personale e narrativo, rievocando i miei contatti con i cinque "vescovi di Roma" e cercando di dire in breve la mia comprensione della loro opera, nonché la mia gratitudine nei loro confronti. Spero per questa via di interpretare e forse in parte ravvivare il sentimento che ciascuno di voi nutre per loro.

 

Giovanni XXIII

Avevo 14 anni quando il cardinale Angelo Roncalli fu eletto Papa. il 28 ottobre 1958. Il televisore non era ancora nelle case della campagna marchigiana da cui vengo, ma c'era nella scuola media che frequentavo e ricordo il professore di religione che diceva, dopo la fumata bianca: "Sarà Roncalli!" Sentivo quel nome per la prima volta, La sicurezza con cui il professore aveva indovinato il nome dell'eletto mi tornò alla memoria quando mi applicai allo studio dei conclavi e scoprii che l'attesa per l'elezione del patriarca di Venezia era diffusa tra i bene informati.

Ma ancora più viva negli occhi ho l'immagine sua che batte il piede, calzato con scarpette di raso, quando pronuncia le parole: "Sancta libertas filiorum Dei", durante la lettura dell'allocuzione di chiusura della prima sessione del Concilio, l’8 dicembre 1962. Con quelle parole difendeva il libero dibattito dei padri conciliari dalle recriminazioni dei tradizionalisti, che temevano ne venisse un pericolo per l'unità cattolica. Allora non colsi l'idea, che era grande, ma registrai quello scatto d'uomo vivo che ne raddoppiava la rivendicazione: la "santa" libertà di discutere e deliberare che spetta a un Concilio, libertà che viene da Dio, che la Chiesa aveva sempre custodito nella sua grande tradizione e di cui nei primi due mesi del Vaticano Il era tornata a dare mostra al mondo.

In quel gesto c'era in germe la rivoluzione dell'immagine papale che è stata poi operata da Papa Wojtyla. La mia prima intuizione di Papa Giovanni — un avvio di comprensione, germinale ma duraturo — arriva nei giorni della morte. Avevo 19 anni. Ero alla fine del liceo, distrattissimo rispetto a quell'evento, Ma fu messaggio per me la pietas popolare e intellettuale, credente e secolare, che quella morte suscitò, Lessi poi le parole di Pasolini ispirate da essa: "Non serve fare santo chi è santo", Giovanni davvero fu sentito come santo da tutti. Dai miei familiari contadini e dall'ateo professore di filosofia con cui ne parlai — pochi giorni più tardi durante l'esame di maturità e che mi interrogò a partire dalle parole "Pacem in terris" l'incipit che il Papa aveva firmato — quasi come un testamento due mesi prima della morte.

Ampliando lo sguardo dal Papa alla Chiesa, dirò che di Giovanni XXIII oltre a quell'immagine di bontà resta il frutto duraturo del Vaticano II, che non è da vedere solo nei documenti che ne vennero quando il Papa convocatore non c'era più, ma nello "stato di Concilio", ovvero di ricerca, che è durato fino a oggi, e che io credo durerà ancora. É come se la convocazione conciliare non sia mai cessata e si sia prolungata nelle assemblee sinodali, nei convegni ecclesiali, nelle riunioni che si tengono in continuità e a rutti i livelli. Questo è sicuramente un buon segno: c'è speranza finché si cerca.

 

Paolo VI

Paolo VI l'ho incontrato una volta, nel 1969, in occasione di un'udienza alla presidenza nazionale della FUCI, di cui facevo parte. Eravamo una decina di ragazzi con i tre assistenti nazionali e fummo ricevuti nella Biblioteca privata. Mi impressionò la fragilità dell'uomo e il suo visibile tormento. Parlò con ognuno, facendo domande sugli studi e le provenienze. Parlò a tutti accompagnando la riflessione con il movimento delle mani, come per aiutarsi a cercare le parole.

Più tardi, da vaticanista, ho seguito gli ultimi tre anni del Pontificato e mi sono restati nell'anima i gesti compiuti durante il rapimento Moro — in particolare la lettera agli “uomini delle Brigate Rosse” – e dopo la sua uccisione, cioè il funerale nella Basilica di San Giovanni il 12 giugno 1978, con quella preghiera finale che suonò come un rimprovero a Dio e aiutò a un recupero di veracità nel modo di pregare di tanti.

Alla domanda su quali momenti del Pontificato montiniano io abbia colto meglio - nella distratta giovinezza e nello studio venuto dopo - indicherò, tra i documenti, l'enciclica Populorum progressio e l'esortazione apostolica sulla gioia cristiana Gaudete in Domino (1975). Tra gli atti, l'uscita di Pietro nel mondo: in particolare il pellegrinaggio in Terra Santa (1964) e la missione all'Onu (1965).

Tra i gesti: la richiesta di perdono ai fratelli separati e il dono della tiara ai poveri. E infine il "pensiero alla morte", o testamento, con lo straziante saluto a "questo mondo immenso, misterioso, magnifico". Il suo capolavoro fu la conduzione e la conclusione del Vaticano II, eletto per quell'impresa, la compì con sicurezza,

Il suo genio era la mediazione riformatrice, a guida del movimento conciliare. Quando non ci fu più un movimento riconducibile a unità, fu costretto a bloccare le riforme.

 

Giovanni Paolo I

A Giovanni Paolo I potei mostrare - durante il ricevimento dei giornalisti nell'Aula delle Benedizioni, poco dopo l'elezione - una vignetta di Giorgio Forattini, apparsa quel giorno sul quotidiano "La Repubblica": in essa egli era ritratto, tiara in testa, che rideva di sé davanti allo specchio. Si fermò a guardare e rise per un momento: aveva appena fatto annunciare che non avrebbe preso la tiara e la vignetta interpretava simpaticamente quella decisione.

Credo che pur nella brevità dei 33 giorni che gli furono concessi Papa Luciani abbia dato un suo apporto al rinnovamento del Papato: quello dell'aver mostrato - più che attuato - un modo nuovo di fare il Papa, più semplice, più personale, più evangelico, teso a realizzare un avvicinamento comunicativo nei confronti dell'umanità di oggi, E vedo un segno di quell'intenzione di vicinanza anche nel sorriso di Papa Luciani, che manifestava la sua anima di buon pastore che si sentiva invialo a tutti e voleva mostrarsi sollecito e fraterno nei confronti d'ognuno.

 

Giovanni Paolo II

Su Giovanni Paolo II non finirei di dire.

L'incontro privato risale al dicembre del 1989, quando fui invitato da don Stanislaw alla messa del mattino nella cappella dell'appartamento privato. Avevo appena pubblicato da Mondadori un volumetto a quattro mani scritto con il collega Domenico Del Rio e intitolato Wojtyla il nuovo Mosè. Il Papa lo lesse durante un viaggio africano. Veniamo invitati alla Messa e siamo colpiti come tutti dalla concentrazione del Papa nella preghiera e delle lunghe pause di silenzio, che facevano durare per un'ora quella celebrazione senza omelia. La più piccola dei miei figli, che ha due anni, si addormenta in braccio a me e verso la fine della messa si risveglia e dice "Ciuccio". Il Papa nella conversazione che abbiamo subito dopo prende in braccio la bambina, si complimenta per la sua bravura in cappella e osserva: "Ma un momento si è sentita!". Ecco com'era Giovanni Paolo: concentrato in Dio e capace insieme di cogliere il più piccolo segno che gli poteva arrivare dall'umanità circostante. Mi parla del libro che avevo scritto su di lui; "Lei ha potuto leggere. ha potuto studiare e così ha potuto togliere molti miti. La ringrazio per questo sforzo di comprensione".

Il libro era stato scritto insieme a Domenico del Rio, essendo egli vaticanista di Repubblica e io del Corriere della Sera, A Domenico che era vicino a morire, nel gennaio del 2003, chiesi durante una visita al Gemelli se voleva che io dicessi "qualcosa a qualcuno". Rispose: "Al papa! Vorrei far sapere al papa che io ringrazio per l’aiuto che mi ha dato a credere. Mi è stata dì aiuto la forza della sua fede. Vedendo che credeva con tanta forza, allora anch'io un poco mi facevo forza. Questo aiuto l'aveva a vederlo pregare, quando si mette in Dio e si vede che questo mettersi in Dio lo salva da tutto".